Sergio Luzzatto – Dolore e furore

Genova per loro…

di Monica Galfré

Sergio Luzzatto
Dolore e furore
Una storia delle Brigate rosse
pp. LII-708, € 38,
Einaudi, Torino 2023

Con Dolore e furore Luzzatto porta a compimento una ricerca monumentale, di cui Giù in mezzo agli uomini, il ritratto di Guido Rossa uscito un paio di anni fa (Einaudi, 2021), aveva fornito una sorta di anticipazione. Ripercorrendo la parabola genovese delle Brigate rosse, che nell’omicidio dell’operaio comunista ha avuto il suo culmine, l’autore aggiunge un tassello decisivo alla storia della più importante formazione armata degli anni settanta; e allo stesso tempo, attraverso la lente offerta dal capoluogo ligure, compie un affondo nella società italiana, tra apogeo e fine dell’età dell’oro. La storia del terrorismo e la storia del paese, troppo a lungo separate, si fondono così in un racconto corale, dove la sensibilità dello storico e del narratore diventano una cosa sola.

La strada prescelta è quella di leggere il fenomeno eversivo nella carne viva di una città dai mille volti, nel rapido passaggio dalla vivacità di fine anni sessanta, con il Sessantotto e poi l’autunno caldo, alla Genova spenta e stanca del documentario che Giorgio Bergami realizza poco dopo la crisi del 1973. La storiografia ha già cominciato a mettere a fuoco il caso genovese in rapporto all’identità cittadina (Davide Serafino, La lotta armata a Genova, Pacini, 2016). Da una parte la memoria della Resistenza e dell’antifascismo, che incide sulla precocità dei Gap di Feltrinelli e della Banda XXII ottobre, dall’altra il peso dell’industria pubblica, con un Pci che si fa stato, dove le Br (e prima ancora la sinistra extraparlamentare) non riescono a sfondare.

Luzzatto parte da qui ma va molto oltre, accompagnandoci dentro i misteriosi e stratificati recessi di una metropoli che anche con il mare ha un rapporto ambivalente, di vicinanza e lontananza. Per restituirne con minuzia calligrafica i rivoli e l’atmosfera da casbah, Luzzatto annusa carne umana come l’orco di Bloch. Grazie a un imponente apparato documentario, tra archivi pubblici e privati e fonti orali, prendono vita molti personaggi diversi che concorrono a dare voce ai respiri della città, avviluppando il lettore nelle spire di una scrittura che non perde mai di ritmo.

A costituire la traccia del libro è però la biografia del capo della colonna genovese Riccardo Dura, ricostruita con ostinata curiosità, che offre una sorta di autobiografia del paese oltre che del terrorismo italiano. Dura è il brigatista perfetto, capace di mimetizzarsi al punto da non essere riconosciuto subito tra i cadaveri allineati lungo il corridoio di via Fracchia nel marzo 1980; e nella sua storia di immigrato siciliano, ragazzo difficile, operaio marittimo si leggono le ombre del boom e la sua rapida crisi, quando una conflittualità sociale complessa, ben oltre la centralità operaia, si associa per l’ultima volta alle ideologie del Novecento, tra la fine di un mondo e l’incubazione di un altro. Il vero cuore del libro è la prima metà, dedicata alla genesi della colonna genovese, vero e proprio atto d’amore nei confronti della propria città, dove lo storico sembra voler rispondere agli interrogativi del testimone, per quanto inconsapevole e indiretto esso sia stato. Genova è in queste pagine soprattutto città laboratorio, piena di contrasti tra residui arcaismi e spregiudicate rotture, da una parte la nave Garaventa, il riformatorio galleggiante che cerca di raddrizzare i ragazzi riottosi alla disciplina, primo tra tutti Dura, dall’altra don Gallo e altri che nel clima postconciliare spezzano il conformismo del mondo cattolico, non meno di quello comunista; tra gli altri, il giovane Giovanni Senzani, studioso critico delle istituzioni rieducative e carcerarie, di cui Luzzatto riporta a galla i trascorsi genovesi al di là della parentela con il filologo Enrico Fenzi (ne è cognato).

Rilevante il ruolo che vi gioca l’Università, e in particolare la facoltà di lettere di via Balbi, dove insegnano Fenzi e lo storico Gianfranco Faina, che esercitano grande carisma negli ambienti rivoluzionari, mentre gli operai appaiono nel complesso meno ricettivi alle novità. Poco importa che Fenzi entri a far parte della colonna brigatista (con un peso in verità mai pari alla sua caratura intellettuale) e Faina invece se ne stacchi quasi subito per poi fondare Azione rivoluzionaria, di matrice anarcoide. Per Luzzatto all’origine ci sono loro, insieme al chirurgo viceprimario Sergio Adamoli, figlio del primo sindaco partigiano della città, all’avvocato Edoardo Arnaldi (il brigatista fu però il figlio Edgardo) e altri sui quali Dalla Chiesa testa la sua “cifra interpretativa generale che potremmo definire come intellettualistica”. Una tesi che ha una sua ragion d’essere, purché non oscuri la componente operaia ed extraparlamentare e non alimenti un pregiudizio profondamente radicato – Luzzatto in verità se ne sottrae – secondo il quale solo professori dalle menti luciferine possono esserne stati gli artefici.

Con la nascita della colonna, fondata nel 1974 grazie all’esperienza di Rocco Micaletto, inizia una storia diversa. Il livello degli attentati e la autoreferenzialità delle Br inducono a spostare in secondo piano tutto quello che sta loro intorno, compreso il contesto eversivo nazionale, assai affollato di sigle e indispensabile per definire il caso italiano. A Genova è vero però che le Br sono sole e senza freni. È qui che per la prima volta compiono un sequestro di lunga durata e un omicidio pianificato, individuano nel Pci un obiettivo e uccidono un operaio comunista, Rossa appunto, innescando una spirale irreversibile; anche se durante il sequestro Moro sono i camalli a coniare lo slogan “né con lo Stato né con le Br”. Ed è sempre da qui che parte la controffensiva vittoriosa dello stato, con la rapida sconfitta della colonna, dopo l’arresto di Micaletto e Patrizio Peci, primo pentito, e il sanguinoso epilogo di via Fracchia. Solo in seguito assume un riconosciuto ruolo nazionale Senzani, di cui invece Luzzatto, poggiando sulla letteratura esistente, ipotizza un coinvolgimento di primo piano nel caso Moro.

Nel complesso un libro prezioso, che fa compiere un passo avanti alla storiografia sulla lotta armata anche in termini di approccio e metodo. E che forse non piacerà a chi si ostina a leggere la storia attraverso le lenti della dietrologia e della storia criminale, né a chi ne offre una spiegazione in meri termini di classe. Il caso genovese, se pur descritto nelle sue particolarità, conferma le complesse implicazioni del fenomeno armato degli anni settanta che, nella sua natura crepuscolare, è figlio di molte storie diverse.

monica.galfre@unifi.it
M. Galfré insegna storia contemporanea all’Università di Firenze

Foto di famiglie

di Paolo Soddu

Il titolo del libro è stato suggerito a Luzzatto da una lettera di Rossana Rossanda. L’esponente del “manifesto” individuava nel dolore e nel conseguente furore un tratto dei militanti e dei dirigenti dei partiti armati, disgiungendoli dagli intellettuali: chi si esprimeva con le parole non era assimilabile a chi usava le armi. L’autore mostra una realtà assai più frastagliata e mossa, offre della colonna genovese delle Brigate rosse e dei gruppi minori un racconto corale molto intenso e coinvolgente. Stimola a nuovi orizzonti interpretativi di quella che per David C. Rapoport è stata la terza ondata terrorista. Luzzatto rivela che nel nostro caso l’album di famiglia, lungi dal raccontarne una sola, conteneva foto di gruppo con tutte le culture e famiglie politiche, perché ritraeva il paese. Dolore e furore, con l’imponente ricerca e coi drammatici documenti su Riccardo Dura e gli altri, fornisce dall’osservatorio italiano nuove prospettive che consentono di allargare la comprensione di quella luttuosa fase. La realtà di Genova concentra questioni decisive: la presenza massiccia della grande fabbrica e dell’impresa pubblica nella fase terminale; i caratteri dolorosi dell’emigrazione interna disordinata e non governata, capace però di smuovere le asfittiche separatezze della società tradizionale; i tormenti delle grandi e piccole culture politiche; il nesso tra globale e locale; la combinazione tra persistenza del totale e democratizzazione plurale; le nuove generazioni sospese tra passato e presente.

I partiti armati si diffusero nei paesi che nel passaggio alla società di massa avevano perfezionato gli elementi totali già operanti del vivere collettivo. Emersero in concomitanza con il suo smantellamento che pesava sulle democrazie in costruzione. Irrompeva, nel contempo, “lo shock del globale”: come sostenne Tony Judt, gli opposti richiami ideologici della terza ondata costituivano una risposta dal comune sapore nazionalista. Nel caso italiano fu anche reazione all’imponente distruzione del denso totale accumulatosi nel tempo: il Sessantotto rivoltò così fabbriche, seminari, monolitismo cattolico, università, scuole, manicomi, orfanatrofi, brefotrofi, riformatori (come l’atroce nave Garaventa in cui finì Dura adolescente), rigidità stanziale, famiglie, generi, codici civili e penali. Tutto fu travolto e trasformato da quell’imponente demolizione di ciò che sopravviveva delle fogge totalitarie dello stato e della società, così come si erano conformate nella prima globalizzazione e consolidate nelle dittature escludenti il plurale, quale fu l’Italia fascista. Allora fu visto solo parzialmente: lo offuscava il richiamo irresistibile per gli uni dell’atmosfera cupa e oppressiva del totale, per gli altri la disperazione di chi l’aveva subito essendone stati irreparabilmente feriti. Più esplicitamente, nel caso della destra radicale si manifestò come volontà di riaffermare modalità sadiche di sorveglianza e di controllo proprie delle società organiche che svanivano; in quello della sinistra radicale come prigionia esistenziale da cui era impossibile uscire, se non nell’illusione di distruggere i simboli del proprio malessere. Distanti socialmente, Riccardo Dura e Marco Donat-Cattin, per esempio, avevano lo stesso demone. Riccardo lo scorse quando, avendo l’ordine di ferire il commissario di polizia Antonio Esposito e il sindacalista della Cgil Guido Rossa, decise per entrambi il colpo di grazia. Marco premise un rito di vestizione da religioso all’assassinio del magistrato Emilio Alessandrini, quasi avvertisse il bisogno insopprimibile di prepararsi a una cerimonia preludio di un inevitabile funerale.

Si rivelarono paradigmatiche le ripercussioni dei terrorismi sulle culture politiche plurali, che pure del totale erano state, chi più chi meno, tutte impregnate: la destra del Msi e dei suoi mallevadori fu opaca ed elusiva; il campo della legittimità oscillò tra ripulsa e comprensione; il Pci secondo Berlinguer vi si contrappose con tutta la sua forza, segnando l’irreversibile distanziamento nell’approdo al plurale dalla dimensione totale. Per tutte tuttavia finì col condizionare, allontanandola, una possibile evoluzione.

paolo.soddu@unito.it
P. Soddu insegna storia contemporanea all’Università di Torino